È
da una ventina di giorni che sono tornata dall’Africa e solo ora mi
trovo a riflettere sul tempo passato in questo paese tanto diverso
dal nostro, quello che io amo chiamare “mondo parallelo”. Grazie
ad una mostra fotografica organizza da Elisa sono venuta a conoscenza
di Nyakipambo, un villaggio che non sapevo neppure esistesse. Per
informarmi un po’prima di partire ho cercato in internet qualche
informazione ma non ho trovato neppure la sua collocazione e quindi
ho pensato “boh, forse ho scritto male il nome: Nyakipambo, dove
andrà la y?”. Invece è talmente piccolino che non si trova in
internet e neppure sulla guida lonely planet. Per raggiungerlo
bisogna prendere “l’autostrada Africana” da Iringa in direzione
Makambako e dopo qualche ora girare sulla sinistra in una strada un
po’ dissestata.
Oltre
ad Elisa con me c’erano Erika, Sara e Barbara e con loro siamo
state in questo villaggio dieci giorni. Non so neppure da dove
incominciare, ma penso che il mio primo pensiero sia giusto dedicarlo
a Baba Liberatus, che ora sorveglia la missione dal cielo; un prete,
un amico, un papà, un nonno che ci ha accolto a braccia aperte e fin
da subito ci ha aperto la sua casa facendoci sempre sentire come se
fossimo a casa nostra.
Nel
cortile della missione, che per me inizia con un grande albero dai
fiori rossi, c’erano sempre tanti bambini. Mamma mia che occhi, che
sguardi, che sorrisi, non li dimenticherò mai. Vivaci, curiosi,
attivi, sempre pronti a giocare, a disegnare, a saltarti addosso.
Così vivi che ti conquistano al primo sguardo, ti bruciano col
calore dei loro occhi e dei loro sorrisi. Io in particolare mi sono
innamorata di due fratellini, Alexi e Angy (non so neppure se i loro
nomi sono esattamente questi) orfani di madre.
Mi
sono sentita a casa non solo all’interno della missione ma anche in
ogni singolo istante in cui camminavo per le strade di Nyakipambo.
Spesso incontravamo donne che lavoravano nei campi o uomini che
portavano a pascolare il gregge e non appena si accorgevano della
nostra presenza ci venivano incontro e ci accoglievano nelle loro
“case”. Case molto semplici ma sempre aperte a noi stranieri. La
loro voglia di parlare con noi penso che nasca dalla curiosità di
conoscere tramite i racconti il nostro mondo e capire come e dove
viviamo, perché a differenza nostra non possono viaggiare. Anche se
il dialogo non durava molto perché in swahili oltre alla domanda
“Jina laku nani?” (come ti chiami) non sapevo dire altro, per me
erano momenti ad alta intensità emotiva, per farvi capire era come
se per un istante due mondi paralleli si incontrassero anche solo per
un secondo, ma comunque era un secondo in comune.
Ho
fatto di tutto per portarmi un po’ di Africa a casa, ho scattato
mille foto, ho comprato i loro tessuti, le loro collanine e mille
altre cose ma niente può sostituire gli odori, i colori, il cielo e
l’ospitalità che ho provato in questi giorni.
Grazie
ragazze, grazie Elisa, grazie Baba e grazie Nyakipambo, avete
conquistato una parte del mio cuore e vi porterò per sempre con me.
Francesca
Francesca
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